Bitcoin, i dettami della legge
Agli inizi del 2009 nasce l’era delle criptovalute.
Satoshi Nakamoto (pseudonimo) lancia Bitcoin, un software in grado di offrire un’alternativa ai tradizionali mezzi di pagamento, che opera attraverso una piattaforma senza intermediari, la c.d. blockchain, decentralizzata, con sistema peer-to-peer.
Il Bitcoin viene definito comunemente come moneta digitale o valore digitale, scambiabile online senza terze parti, alle quali sono solitamente affidati compiti contabili, amministrativi o di sorveglianza delle operazioni.
È la moneta che più si avvicina agli spiriti libertari della rete, ma tecnicamente non è una moneta e non può essere gestita o tutelata come le monete comunemente conosciute. Non ha un padre, non ha un controllore, è volatile, si affida alla domanda ed è di quantità finita.
Il Bitcoin non è che una, sebbene sia la più comune e diffusa, delle criptovalute. Si contano circa 1.500 o più criptovalute e la capitalizzazione complessiva è estremamente variabile: si passa da 800 miliardi a 385 miliardi di dollari in poche settimane a causa delle oscillazioni di valore. Il solo bitcoin vale il 35% di tutto il mercato, ma anche questo dato varia, con il variare del valore di scambio (è arrivato ad incidere anche per l’80%).
Determinare il valore reale è particolarmente difficile e molti si sono cimentati senza giungere ad una conclusione univoca. Il valore è influenzato dalla domanda. La massa monetaria di bitcoin non è infinita e non potrà superare i 21 milioni di unità. Difficile è prevedere a quale valore si stabilizzerà, proprio per l’estrema volatilità, che lo caratterizza. Ciò pone in discussione il concetto di moneta come lo conosciamo.
Si può dare una definizione tecnica, ma non giuridica.
Ma quando ci poniamo il problema di definire qualcosa in cui ci imbattiamo, senza una collocazione giuridica, è come orientarsi in un mondo apparentemente conosciuto, senza assi cartesiani. Per mia formazione professionale, posso dire di appartenere più allo spirito ortodosso degli operatori del diritto di natura tradizionale civilistica, per i quali, qualunque cosa interagisca con il genere umano, deve avere un quadro normativo dedicato, oppure anche solo di riferimento, a cui rimandare: la fattispecie ignota, deve essere ricondotta nella fattispecie nota, attraverso un’attività interpretativa, generalmente demandata agli operatori del diritto.
Dal quadro normativo in cui inserire il Bitcoin, nel caso non ne venisse dato uno suo proprio, discende l’applicazione delle norme correlate; si pensi, ad esempio, alle norme relative alla tassazione applicabile, alle norme sull’antiriciclaggio, a quelle sugli intermediari finanziari, sulle società fiduciarie, sulla tutela degli investitori e risparmiatori, oppure quelle dedicate alla tutela dei consumatori; si possono definire i diritti e i doveri (e le responsabilità) degli operatori e degli utilizzatori.
Tecnicamente, il Bitcoin può essere definito come valuta virtuale, costituita dalla rappresentazione digitale di un valore, utilizzabile come mezzo di scambio. Per quanto riguarda il “vestito” giuridico, come detto, in assenza di interventi legislativi ad hoc, oggi si confrontano diverse teorie. Le più accreditate sono quelle che tendono ad identificarlo in base all’utilizzo come moneta, secondo la volontà del suo creatore, altre invece come bene materiale, altre ancora come prodotto finanziario.
Ma a stretto rigore, non può essere una “moneta” ufficiale, perché non ha corso legale, non è soggetta a vigilanza, non tutela le operazioni di acquisto o scambio; senza considerare il problema dell’elevata volatilità.
Non è neppure un bene materiale (merce) data la sua apparenza di bene immateriale, specifico, infungibile e divisibile. In altre parole, non potrebbe essere assimilato a un’opera d’arte. Il suo unico valore d’uso è il valore di scambio, con fluttuazioni di gran lunga superiori a qualunque altra merce. Anche la terza definizione non convince: assimilare Bitcoin a un valore mobiliare, come forma di investimento, contrasta con l’assenza di obbligazioni in capo all’emittente e di diritti per il titolare, come dovrebbe essere se fosse equiparabile ad un titolo di credito.
Le definizioni sopra date non sono di “forma”, come si potrebbe inizialmente pensare, ma di “sostanza”, proprio per il coinvolgimento del sistema normativo in cui si calano, ossia in quella che potrebbe definirsi, per restare in sintonia con il tema, la “rete” giuridica.
Si pensi al seguente esempio: se consideriamo i Bitcoin una valuta, dando Bitcoin in cambio di un bene o servizio, stiamo eseguendo una compravendita. Se consideriamo Bitcoin un bene materiale, dando Bitcoin in cambio di un altro bene o servizio, stiamo eseguendo un baratto. Le regole che si applicano nei due casi sono diverse.
L’inquadramento normativo è critico ed è ancora in uno stato embrionale e si scontra con la difficoltà oggettiva di ricondurre Bitcoin a fattispecie note e regolamentate.
La difficoltà deriva dal fatto che il fenomeno delle valute virtuali è molto recente; stiamo per giungere al compimento del decimo anno e si è sviluppato con una velocità impressionante, soprattutto negli ultimi anni, sebbene non sia ancora un fenomeno sistemico. I Legislatori nazionali e sovranazionali sono stati colti di sorpresa, ma già numerosi sono gli interventi che si segnalano e che non è il caso qui di riproporre, se non limitatamente a quelli che ritengo più interessanti ed a noi più vicini per trarre utili spunti interpretativi: la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e la risoluzione del Parlamento Europeo.
La prima si è occupata dell’applicabilità dell’IVA al margine applicato al cambio della valuta a corso legale contro unità di valuta virtuale e viceversa. In breve, la Corte di Giustizia Europea ha escluso l’assoggettabilità ad IVA. Il provvedimento è utile per le definizioni in esso contenute. Nel testo, incidentalmente, si precisa che le valute virtuali, ossia il bitcoin, sono diverse dalla moneta elettronica, già definita in una precedente direttiva del Parlamento Europeo, assimilandole a valute estere e si è altresì escluso che possa essere identificata come bene materiale, con ciò distaccandosi dalla definizione data dalla Commissione Americana, la Commodity Futures Trading Commission, che ha definito i bitcoin come merce. Altri Paesi, invece, tendono ad inquadrarlo come prodotto finanziario, come la Svezia e la Germania.
In attesa di ulteriori approfondimenti e di una specifica normativa sul tema, rimanendo ancorati alle determinazioni della Corte di Giustizia Europea, dobbiamo concludere nel senso che la valuta virtuale sia un mezzo di pagamento contrattuale, quindi, con valuta non tradizionale ed alternativa ai mezzi di pagamento legali. Tale distinguo lascia un dubbio, se la valuta virtuale non rientra tra le valute a corso legale, il pagamento avvenuto con valuta virtuale rientra a pieno titolo tra i pagamenti legali?
Per trovare le risposte, è utile richiamare la risoluzione del Parlamento Europeo del 2016, relativa alle valute virtuali, in essa definite anche come denaro digitale, che, sebbene non emesso da una banca centrale o da ente pubblico, privo di corso legale ufficiale, è accettato come mezzo di pagamento, basato principalmente su una tecnologia di registro distribuito. Ciò permette di escludere che le criptovalute costituiscano pagamenti illegali.
Ma ancor più che per le definizioni in essa contenute, la risoluzione si segnala per le precise direttive agli Stati. Il Parlamento Europeo, sebbene evidenziando i rischi legati alle valute virtuali e nella consapevolezza del panorama tecnologico in rapida evoluzione, ha invitato i Paesi aderenti a rafforzare la capacità normativa e le competenze tecniche, per sviluppare un quadro giuridico adeguato, evitando un messaggio errato sui vantaggi o la sicurezza delle monete virtuali. E’ stata quindi riconosciuta la potenzialità, ancora del tutto inespressa, della rete su cui operano le criptovalute, quanto ai servizi di mediazione delle controversie, in particolare nei settori finanziari e giuridico, nonché la potenzialità dei contratti intelligenti combinati con le firme digitali, atti a permettere una più elevata protezione dei dati, utili anche per migliorare i sistemi dei registri catastali.
L’auspicata legislazione dovrà normare, senza però soffocare l’innovazione e senza aggiungere costi superflui in questa fase iniziale e senza introdurre una regolamentazione sproporzionata, con l’ammonizione che la tassazione non sia evitata, né elusa. Atteggiamento, quindi, cauto, ma consapevole che il “fenomeno” debba essere tutelato e non represso.
Non è così nel resto del mondo. Russia e Cina hanno assunto posizioni differenti, non tanto volte a disciplinare il “fenomeno”, ma ad arginarlo. Ed ecco che il valore del bitcoin è subito precipitato.
Per concludere, allo stato la soluzione preferibile sembra ravvisarsi nell’indicazione data dalla BCE, che ha evidenziato come la definizione giuridica vari a seconda dei contesti. E questa sembra essere la sola chiave di volta per regolamentare il fenomeno, evidenziandosi l’impossibilità di una definizione generale e la necessità di un approccio a-sistemico.
Vediamo ora come le criptovalute possono essere utilizzate e quali siano i motivi di tanto universale interessamento.
L’interesse delle criptovalute, soprattutto dei bitcoin, si segnala principalmente per due aspetti. Il primo riguarda l’utilizzo, scollegato dalla finalità per cui è stato creato ed è quello che ha destato maggiore attenzione; il secondo, riguarda i bitcoin quale nuovo strumento di pagamento. La Stampa ha dato prevalentemente spazio al bitcoin quale investimento/speculazione oggetto di trading, segnalando, da un lato, l’incremento di valore abnorme che ha avuto, dall’altro lato, ammonendo gli investitori dei rischi derivanti dalla estrema volatilità.
Nel considerare le criptovalute come strumenti di investimento, tralasciando gli aspetti positivi, già ampiamente decantati, è necessario porre l’attenzione sugli aspetti negativi che, forse più correttamente, dovrebbero essere definiti come aspetti di puro rischio.
Il bitcoin è caratterizzato da estrema volatilità, assenza di un sottostante, assenza di un’emittente identificabile, assenza di controlli delle banche centrali e dei vari enti a ciò preposti, assenza di una normativa dedicata, incertezza della politica monetaria, a tutt’oggi in divenire e, non da ultimo, da una generale incertezza giuridica.
Ognuno di questi aspetti può essere approfondito, ma non potendo dilungarci troppo, sintetizzerei, tentando di ricorrere alla memoria che, soprattutto negli investitori, è assai labile, quando si trovano di fronte a facili possibilità di guadagno.
Ricordiamo la bolla di internet degli anni 1997/2000, il periodo delle dot.com, quando le azioni del settore tech e web esplosero prima al rialzo, poi vennero spazzate via da un crollo esiziale. A seguito del disastro, prolificarono gli esperti, che fecero sentire, a posteriori, tutti gli investitori spregiudicati ed ingenui, evidenziando che quelle società avevano capitalizzato i contatti, ma, in realtà, non avevano assolutamente un sottostante, che potesse dare e mantenere un valore di riferimento al capitale. Ed ancora, risalendo nel tempo, c’è chi ricorda la follia dei tulipani olandesi del 1600. La storia potrebbe ripetersi anche con le criptovalute.
E’ fatto noto: l’investitore è irrazionale. Esperti di neuroeconomia, economia cognitiva e finanza comportamentale interpretano e spiegano come funziona il nostro cervello, con strumenti di indagine scientifici, quali la risonanza magnetica funzionale, che indaga le aree cerebrali, che si mettono in moto, creando il cosiddetto effetto gregge, responsabile delle bolle finanziarie.
Proviamo a descrivere il fenomeno in parole più che semplici, meglio semplicistiche.
Vedendo una persona che, a seguito di un rapido e lauto guadagno, prova una sensazione di sollievo, crescerà in chi guarda la propensione al rischio. L’osservatore imitatore vorrà investire lui stesso, anche per evitare il rimpianto di non aver partecipato al rialzo dei prezzi (si crea la bolla). Al contrario, nel momento in cui si vede la frustrazione di chi sta perdendo, l’osservatore sarà indotto a ridurre la sua voglia di rischiare ed, in linea di massima, venderà gli asset in suo possesso (la bolla scoppia). Alla base di tutto ciò c’è la produzione di dopamina in una piccola regione del nostro cervello, ma questa è un’altra questione, che non ci compete, almeno in questa sede.
Vediamo subito quali sono gli aspetti negativi connotati alle valute virtuali, accusate di estrema volatilità, di utilizzo con finalità di riciclaggio e di finanziamento di attività terroristiche. Tutto ciò sarebbe permesso grazie all’anonimato garantito a chi utilizza tale valuta: chi la crea, chi l’acquista e chi la spende. Dobbiamo precisare, però, che sia l’Europol, in presenza di segnalazioni (Israele), sia il U.S. Treasury Department, nel corso del 2014, non hanno confermato l’utilizzo delle criptovalute per finalità legate al terrorismo ed anche l’utilizzo di tale valuta per attività illecite, risulterebbe quantomeno limitato.
Proviamo a rappresentare un quadro il più obbiettivo possibile.
In epoca pre-bitcoin le monete operanti erano sostanzialmente due: la moneta “fisica” e la moneta “elettronica”. Soprattutto la prima, offre ancora oggi la possibilità a chiunque di essere accessibile anche senza l’apertura di un conto corrente o il possesso di un dispositivo elettronico ed è la più anonima valuta in assoluto, in quanto non è necessario al fine del pagamento, né indicare l’identità del mittente, né quella del beneficiario, né tantomeno una causale.
La moneta elettronica ha il vantaggio di essere facilmente accessibile (carta di credito-bancomat) e di consentire pagamenti a distanza e pagamenti programmati, ma è tracciabile.
Il bitcoin dovrebbe ricomprendere tutte queste prerogative ed è un errore considerarlo uno strumento di pagamento assolutamente anonimo, poiché dovrebbe essere più correttamente definito “pseudonimo”. Si vedrà, poi, parlando della blockchain, come qualsiasi operazione, avvenuta con tale modalità, lasci per sua stessa natura una traccia indelebile e immodificabile. In conclusione sul punto, la moneta (cartacea) è lo strumento più anonimo in assoluto.
Dopo aver sommariamente descritto il bitcoin, è inevitabile soffermarsi sulla tecnologia grazie alla quale circolano le valute virtuali.
Stiamo parlando della blockchain, piattaforma in grado di formalizzare e svolgere operazioni online, sfruttando il network di utenti che la utilizzano, senza fare affidamento su intermediari di alcun tipo. All’interno della blockchain gli utenti operano attraverso account pseudonimi, che appaiono come lunghe stringhe di numeri e lettere ordinati in maniera casuale, generati da potenti computer in grado di compiere operazioni matematiche complesse, che creano chiavi criptografiche.
In particolare, ogni utente dispone di una chiave pubblica e di una privata. È opportuno chiarire sin da subito che la criptografia non esclude, di per sé, che l’identificazione degli utenti possa avvenire attraverso l’uso di strumenti di controllo indiretti, i quali, a loro volta, possono essere contrastati con più avanzate modalità di garanzia dell’anonimato. I tecnici escludono che sia impossibile non rintracciare chi si celi dietro un account criptografico.
La blockchain presenta caratteristiche uniche.
Non presenta il problema della conservazione dei dati, praticamente eterni, non ha problemi di riservatezza, poiché i dati sono inseriti dallo stesso utente e pertanto accessibili, analizzabili e utilizzabili. È senza confini ed è disponibile in qualunque luogo. Le conseguenze di queste particolari proprietà rendono la blockchain il luogo meno adatto per commettere reati, perché le tracce sono eterne.
Si deve pertanto concludere che i Bitcoin non sono un sistema completamente anonimo, in quanto il registro nel quale sono annotate le transazioni rimane pubblico. In esso le transazioni sono visibili a tutti, in quanto tutti hanno una copia del libro contabile. Chiunque (purché sia in grado di farlo) può in qualsiasi momento scorrere la lunga lista di pagine che compongono la blockchain e sapere quanto ciascuna delle chiavi pubbliche possiede e ha speso nel corso del tempo.