Milano
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Il recupero dell’IVA nelle procedure concorsuali

Cade il tabù del recupero dell’IVA, anche in assenza di insinuazione al passivo

Capita non di rado, che il proprio cliente, che non ha pagato la fattura, soggetta ad IVA, abbia anche la “cattiva idea” di fallire, con ciò allontanando o riducendo o azzerando la possibilità di recuperare non soltanto il credito per somma capitale, ma anche l’IVA esposta in fattura e versata.

Il Legislatore (in senso lato, nelle sue varie articolazioni) ha consentito il recupero dell’IVA non incassata al verificarsi di determinate condizioni, nel tempo modificate, ma sempre connotate da estremo formalismo e mai favorevole al creditore. Tanto da considerare il recupero quasi un’ipotesi residuale.

La sentenza della Corte di Giustizia UE dell’11 giugno 2020, nel procedimento C-146/19, fa definitiva luce sui principi e sulle modalità di recupero dell’IVA, anche in caso di mancata insinuazione al passivo fallimentare, modificando la prassi e la giurisprudenza europea e, quindi, anche italiana. Nelle pagine che seguono, partendo da un breve excursus sul trattamento sin qui seguito, vedremo come la nostra giurisprudenza dovrà considerare l’argomento e, soprattutto, ipotizzando una prevedibile resistenza al cambiamento, vedremo perché il cambiamento sarà dovuto.

1. Breve cronistoria del trattamento dell’IVA nelle procedure concorsuali incapienti

Grazie alla giurisprudenza formatasi in sede europea e al Tribunale di Udine (si veda sul punto il nostro intervento, ora leggibile nei siti WMR e Istituto Nuova Etica Economia e Diritto), la nostra Corte Costituzionale, nella sentenza n. 245 del 2019, è stata impegnata in un’approfondita disamina di tutta la disciplina concorsuale in relazione al trattamento dei tributi rientranti nella sfera di competenza dell’Unione Europea (IVA) e ai principi che regolano l’ordine dei privilegi. 

Con tale sentenza è stato conclamato il principio della falcidiabilità dell’IVA, ossia la possibilità per il debitore di proporre all’Erario un importo inferiore al dovuto, nell’ambito di una procedura concorsuale. Originariamente, tale “beneficio” era previsto soltanto nel caso di fallimento e concordato preventivo e, quindi, soltanto per quei debitori che avevano i requisiti per poter accedere a tali procedure, poi è stato esteso, per ragioni di uguaglianza e pari diritti, anche alle procedure negoziate a base volontaria e preventiva, nella composizione delle crisi da sovraindebitamento (L. 27 gennaio 2012, n. 3) riservata ai debitori non fallibili, ai consumatori ed agli imprenditori agricoli.

Quindi, il principio che l’IVA possa essere oggetto di disposizione, trattativa, riduzione non può più essere posto in dubbio.

2. Il principio ispiratore della disciplina dell’IVA nella legislazione comunitaria

Ai fini che ci occupano, la norma di riferimento, da cui tutto parte in materia di IVA, è l’art. 90, paragrafo 2, della direttiva IVA, il quale contempla i casi di annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o riduzione di prezzo dopo il momento in cui si effettua l’operazione. La norma richiamata obbliga gli Stati membri a ridurre la base imponibile IVA e, di conseguenza, l’importo dell’IVA dovuta dal soggetto passivo ogni volta che, successivamente alla conclusione di una transazione, una parte o la totalità della controprestazione non venga percepita dal soggetto passivo.

Tale disposizione è espressione di un principio fondamentale della direttiva IVA, secondo il quale la base imponibile è costituita dalla controprestazione realmente percepita, il cui corollario consiste nel fatto, che l’amministrazione tributaria non può percepire a titolo di IVA un importo superiore a quello, che il soggetto passivo aveva percepito (principio ravvisabile già nella sentenza 6 dicembre 2018, C-672/17; EU:C:2018:989, punto 29). 

Tale regola non può comunque essere vanificata dalla possibilità per gli Stati membri di derogare, in caso di non pagamento totale o parziale del prezzo dell’operazione, laddove il mancato pagamento sia di difficile verificazione o abbia carattere puramente temporaneo. Al di fuori di tale stretta deroga, all’Ente impositore non è concesso andare oltre, per il principio di neutralità dell’IVA

3. La prassi italiana in caso di fallimento del debitore. Il problema della mancata insinuazione del credito al passivo fallimentare

L’orientamento italiano in tema di “recuperabilità” dell’IVA, in caso di procedure concorsuali, può essere definito altalenante, con tendenza alla restrizione. In questo caso, la norma di riferimento è l’art. 26, comma 2, del D.P.R. n. 633 del 1972, con successive modifiche e circolari interpretative del Ministero delle Finanze. 

La situazione più recente può così individuarsi: nel caso si configuri un mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose, vi è la possibilità di portare in detrazione l’IVA, con l’emissione di una nota di variazione in diminuzione. L’infruttuosità va identificata con la certezza giuridica, che il credito non verrà soddisfatto (in tutto o in parte) per insussistenza di somme disponibili.

La certezza, giuridicamente intesa, si ha con il decreto con cui il giudice approva il piano di riparto, rendendolo esecutivo (trascorso il termine di 10 giorni per le osservazioni dei creditori), oppure con il decreto di chiusura del fallimento, decorso il termine per il reclamo.

L’Agenzia delle Entrate, a più riprese, ha chiarito che presupposto per l’emissione delle note di variazione è la partecipazione alla procedura, che, nel caso di fallimento, si concretizza con l’insinuazione al passivo.

4. La sentenza della Corte di Giustizia UE. Statuizione ed effetti

Come sopra anticipato, la Corte di giustizia UE ha sovvertito l’orientamento descritto nel paragrafo che precede.

Il principio introdotto può essere così sintetizzato: affinché la legislazione degli Stati membri sia conforme al disposto dell’art. 90 della direttiva IVA, deve essere garantita al soggetto passivo la possibilità di ridurre la base imponibile, qualora sia capace di dimostrare, che il credito vantato nei confronti del debitore presenti un carattere definitivamente irrecuperabile. Tale diritto non può essere vanificato dalla mancata partecipazione alla procedura concorsuale (insinuazione al passivo), qualora il soggetto passivo dimostri che, se anche avesse insinuato il creditoquesto non sarebbe stato riscosso

La sentenza affronta a fondo tutti gli argomenti e le obiezioni opposti alla conclusione adottata, che vedono principalmente nel sistema di prelievo dell’imposta il cardine su cui ruotano le legislazioni nazionali per garantire la raccolta, attraverso le imposizioni al soggetto passivo, destinatario di diffusi pregiudizi. Pregiudizi tradotti nella preoccupazione che, se tale soggetto, agente per conto dello Stato, si vedesse riconoscere il diritto di diminuire la base imponibile dell’IVA in tutti i casi di non soddisfacimento dei crediti, anche quando egli stesso non adempia ai propri obblighi risultanti dal sistema dell’IVA, per scarsa diligenza (o peggio), egli priverebbe lo Stato della possibilità di percepire l’IVA dichiarata.

La Corte risponde, richiamando una serie di principi cardine su cui si fonda la disciplina dell’IVA, citando la giurisprudenza comunitaria formatasi in tema. 

Il primo prevede che la base imponibile debba essere costituita dalla controprestazione realmente percepita. La conseguenza è che l’amministrazione tributaria non può percepire a titolo di IVA un importo superiore a quello che il soggetto passivo ha percepito. Sebbene, come detto, gli Stati possano derogare a tale principio, per evitare evasioni o elusioni fiscali, tale facoltà è strettamente limitata ai casi di non pagamento totale o parziale, quando il non pagamento della controprestazione sia di difficile verificazione, oppure sia puramente temporaneo. Diversamente, ci si scontrerebbe con il principio di neutralità dell’IVA, da cui discende in particolare che, nella sua qualità di percettore di imposte per conto dello Stato, l’imprenditore deve essere interamente sgravato del peso dell’imposta dovuta o assolta nell’ambito delle proprie attività economiche a loro volta assoggettate ad IVA.

Anche il subordinare la riduzione della base imponibile all’insinuazione al passivo del debitore, sebbene astrattamente possa contribuire ad assicurare l’esatta riscossione dell’IVA, evitando il conseguente danno per lo Stato, non può essere accettato, poiché si tradurrebbe in una presunzione generale di frode, che va al di là di quanto è necessario per raggiungere l’obiettivo consistente nel prevenire le evasioni fiscali.

 Vale, quindi, la prova liberatoria per il soggetto passivo fiscale, che dimostri che, se anche avesse insinuato il proprio credito, questo non sarebbe stato riscosso. Il precludere la possibilità in siffatto caso di ridurre la base imponibile per la sola mancata insinuazione, va oltre i limiti strettamente necessari per raggiungere l’obiettivo consistente nell’eliminare il rischio di perdita di entrate fiscali. Infatti, in questa ipotesi, nessun pregiudizio supplementare per lo Stato avrebbe potuto essere evitato mediante l’insinuazione del credito.

Alla luce delle considerazioni che precedono, sebbene qui sinteticamente riproposte, la Corte europea ha ravvisato negli artt. 90, paragrafo 1 e 273 della direttiva IVA un impedimento alla normativa di uno Stato membro, in virtù della quale ad un soggetto passivo venga rifiutato il diritto alla riduzione dell’IVA assolta e relativa ad un credito non recuperabile, qualora abbia omesso di insinuare tale credito nella procedura fallimentare, quand’anche detto soggetto dimostri che, se avesse insinuato il credito, questo non sarebbe stato riscosso.

5. Le conseguenze sulle decisioni dei Giudici nazionali

La perplessità che si può avere, è se la sentenza in commento avrà seguito nelle applicazioni locali e se sarà recepita nel principio enunciato. E’ facile prevedere una certa riluttanza.

Tuttavia, la sentenza non è priva di obblighi e doveri per il Giudice nazionale, ai quali dovrà attenersi. In prima battuta, si deve osservare che nell’applicare il diritto interno, il Giudice nazionale deve interpretare quest’ultimo alla luce del testo e delle finalità della direttiva, al fine di raggiungere il risultato da questa perseguito. Vige l’obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale, onde consentire la piena efficacia del diritto dell’Unione. Per converso, qualora l’interpretazione della norma nazionale in senso conforme non sia possibile, il Giudice nazionale ha l’obbligo di disapplicare qualsiasi disposizione nazionale contraria a una disposizione del diritto dell’Unione, che sia munita di effetto diretto nella controversia di cui esso è investito (così è per la direttiva IVA). 

Agli Stati è preclusa la possibilità, attraverso l’esercizio discrezionale di deroga, di pregiudicare il carattere preciso e incondizionato dell’obbligo di riconoscere la riduzione della base imponibile nei casi contemplati dal richiamato art. 90 della direttiva IVA. Quest’ultimo soddisfa le condizioni per produrre un effetto diretto nell’ordinamento nazionale. Le parole finali della sentenza meritano la trascrizione: “Alla luce delle considerazioni che precedono [omissis] l’art. 90, paragrafo 1, della direttiva IVA deve essere interpretato nel senso che il giudice nazionale deve, in virtù dell’obbligo che gli incombe di adottare tutte le misure idonee a garantire l’esecuzione di tale disposizione, interpretare il diritto nazionale in senso conforme a quest’ultima, ovvero, qualora una siffatta interpretazione conforme non sia possibile, disapplicare qualsiasi normativa nazionale la cui applicazione porti ad un risultato contrario alla disposizione in parola.”.

Si può quindi concludere che, anche in caso di mancata insinuazione al passivo, il creditore, che sia soggetto passivo per l’IVA, ha il diritto alla riduzione dell’imposta per un credito non recuperabile, qualora dimostri che, se anche avesse insinuato il credito, questo non sarebbe stato riscosso. 

Aggiungiamo noi: come comportarsi nel caso in cui dovesse emergere in sede di riparto, che il credito dell’obbligato venga pagato, ma in minima parte? E’ evidente che in caso di insinuazione al passivo e alla luce dei principi sopra esposti, l’IVA verrebbe conteggiata sulla base imponibile realmente percepita. Ma in caso di mancata insinuazione, il credito si considera integralmente estinto e, anche la parte liquidabile in moneta concorsuale, di fatto rinunciata. Potrà il soggetto obbligato pagare l’IVA solo sull’importo pari al riparto a cui avrebbe avuto diritto nel caso si fosse insinuato al passivo o lo si considererà decaduto dal diritto alla riduzione (che l’Erario considererà un beneficio), con conseguente onere di pagare l’IVA sull’intero importo? 

Qui si tratta di vedere se il riparto, anche minimo, sia sufficiente e determinante per far considerare rilevante (ex post) la negligenza per mancata insinuazione, proprio alla luce che un riparto ci sia stato. Difficile eliminare in radice ogni interpretazione restrittiva per il contribuente, anche se il principio enunciato dalla Corte europea è chiaro. La risposta dovrebbe essere scontata … o forse no. 

Studio WMR

Avv. Wolfango M. Ruosi